LA QUESTIONE ABITATIVA IN ITALIA E A BOLOGNA

A cura del Prof. Carlo Monti (UniBo) e del dott. Gianluigi Chiaro (Nomisma)

Maggio 2016 – L’Istituto De Gasperi assieme a Pax Christi, ha promosso un convegno intitolato “Abitare le povertà”.

Argomento: deprivazione di casa come via alla povertà all’interno del contesto bolognese.
È stata l’occasione di far emergere alcune esperienze rilevanti e innovative volte all’uscita dei soggetti dalla povertà attraverso un percorso di responsabilizzazione legato alla casa.

Tali esperienze si collocano all’interno di un quadro che risulta certamente complesso e la cui gravità è andata sempre più crescendo a fronte del prolungamento della crisi avviatasi nel 2007/2008. Certamente maggiori sinergie tra gli attori principali e un efficientamento della “macchina” gestionale, soprattutto per quanto riguarda le politiche abitative, permetterebbe di ridurre alcuni problemi ma occorre ripensare assieme un percorso veramente nuovo per dare risposta a problemi nuovi.

Occorre ripensare assieme un percorso veramente nuovo per dare risposta a problemi nuovi.

Segue una breve analisi del contesto socio-economico delle famiglie italiane in relazione alla questione abitativa con un focus sulla situazione all’interno del Comune di Bologna. In parallelo viene descritta l’evoluzione normativa e gestionale dell’Edilizia Residenziale Pubblica in Italia alla quale nel tempo si è affiancata una nuova forma di abitare cosiddetto Social Housing o Edilizia Residenziale Sociale rivolta a famiglie impossibilitate a rivolgersi al mercato per soddisfare le proprie esigenze abitative (canoni cosiddetti calmierati).

Vengono riportate alcune suggestioni riguardanti l’attuale gestione della questione abitativa a Bologna come spunto di confronto a livello cittadino che possa ridare linfa ad una parte di welfare fondamentale.

Sono molti gli elementi che definiscono un situazione complessa, non tutti noti e spesso non messi in relazione fra loro.  In estrema sintesi questi emergono:

  • in Italia, a fronte di una forte diffusione della proprietà della casa (oltre il 70%) e ad una riduzione dello stock di Edilizia Residenziale Pubblica, stanno crescendo le famiglie che non possono affrontare – e soprattutto mantenere – un mutuo o un affitto a prezzo di mercato; per molti l’affitto incide oltre il 30% del reddito;
  • le esperienze di Canone calmierato e di Edilizia Sociale finora non hanno avuto l’impatto atteso;
  • anche a Bologna il problema è grave: si può stimare che vi siano almeno 4.100 nuclei in disagio abitativo acuto ai quali si sommano altri 3.400 nuclei che richiedono un aiuto per sostenerne le spese del canone di locazione;
  • come in tutte le maggiori aree urbane, il grande patrimonio pubblico realizzato in passato è stato in parte venduto, ed oggi è comunque male utilizzato: gli enti gestori, come l’ACER, non hanno le necessarie capacità finanziarie, sono sommersi da inquilini morosi (non sempre per necessità), inseriti in condomini misti che impediscono interventi, esposti continuamente ad occupazioni abusive;
  • la situazione bolognese è singolare, rispetto ad altre aree urbane, per due elementi caratteristici: da un lato il forte numero di studenti universitari fuorisede che incide fortemente sul mercato degli affitti (sui prezzi, sull’offerta, sulla disponibilità dei proprietari ad accordi per un affitto calmierato…) dall’altro un importante patrimonio di origine ecclesiastica, in gran parte espropriato ai tempi di Napoleone, ma ancora in molti casi di proprietà di ordini religiosi o di enti pubblici e privati; un patrimonio esposto al degrado e quasi sempre poco utilizzato.

Il contesto socio-economico delle famiglie italiane e la questione abitativa

  • Le interrelazioni tra demografia e residenza sono strette e complesse: il numero di alloggi necessari a soddisfare la domanda abitativa non dipende in maniera esclusiva dal movimento demografico, ma sempre più dai cambiamenti endogeni delle strutture familiari.
  • A fronte di ciò l’offerta abitativa, sia pubblica che privata, è basata su modelli obsoleti che non tengono conto dei nuovi gruppi sociali. L’invecchiamento della popolazione e la precarietà lavorativa stanno assumendo i caratteri di vera e propria emergenza e l’accesso al bene casa, tanto per i giovani quanto per gli anziani, sta diventando sempre più difficile.
  • La questione abitativa in Italia investe due grandi aree di disagio:
  1. La prima area è costituita da quanti si trovano in una condizione di emergenza abitativa assoluta. In questo caso l’obiettivo è quello di garantire nel tempo il diritto ad un’abitazione per chi si trova in condizioni economiche effettivamente critiche e non è nelle condizioni di pagare un affitto, se non estremamente modesto. È questa una domanda sociale, per così dire “strutturale”, sulla quale si è intervenuti prioritariamente attraverso il rafforzamento dell’offerta abitativa pubblica di edilizia residenziale.
  2. La seconda area di disagio, definita “area grigia”, comprende, invece, persone che a partire dall’inizio degli anni 2000 e, soprattutto, in seguito allo scoppio della crisi economica, pur disponendo di un reddito o di una pensione, non sono comunque in grado di confrontarsi con le condizioni di mercato della casa. Si tratta, ad esempio, di famiglie monoreddito, lavoratori precari, famiglie monogenitoriali, giovani e anziani.
  • Tale gruppo di famiglie/persone sono sempre più esposte al “problema della casa” tanto nella ricerca di un’abitazione adeguata a costi accessibili, quanto nella difficoltà di mantenerla. Spesso tali persone sono “scivolate” da una condizione di relativa tranquillità ad una condizione di povertà estrema proprio a causa del problema abitativo (per uno sfratto, per una separazione familiare) e non sono in grado di accedere al mercato della casa.

 

  • L’emergenza abitativa è sempre più determinata non tanto dalla domanda di alloggi di chi non ha una casa in cui vivere, ma da chi ha una casa e paga, con sempre maggiore difficoltà, un canone di affitto (o una rata di mutuo). In tale contesto, l’aumento del numero di sfratti per morosità è stato esponenziale, portando un numero sempre maggiore di famiglie nella situazione di non avere una residenza e non poter accedere, al contempo, ad abitazioni sociali o di edilizia residenziale pubblica.
  • Gli sfratti emessi dal 2008 sono cresciuti in media dell’8% all’anno. Nel 2014 gli sfratti emessi sono stati complessivamente 77.278 di cui 69.015 per morosità. Gli sfratti eseguiti sono stati 36.083. Nel 2014 gli sfratti emessi per morosità rappresentano il 90% circa della motivazione che sta alla base dell’atto giudiziario (all’inizio degli anni 2000 erano il 66%).

 

  • Negli anni ‘80 erano il 3% in media le famiglie che sopportavano un’incidenza dell’affitto sul reddito superiore al 30%. La situazione cambia nettamente negli anni 2000, che vedono un aumento significativo del peso del canone sulle risorse familiari: la quota di famiglie in affitto per le quali l’incidenza del canone non supera il 10% crolla dal 60% (anni ‘80) a poco più del 20%; viceversa, più del 30% delle famiglie destina al canone oltre il 30% del proprio reddito, nel secondo decennio degli anni 2000. Nel 2014 le famiglie in affitto in disagio potenziale risultano essere il 34%, quota leggermente calata rispetto al 2012 (37,3%) a seguito di un rallentamento nella caduta dei redditi contestuale ad un ulteriore flessione dei canoni.

 

  • La stima del disagio abitativo in Italia è stata oggetto di numerose ricerche a livello accademico[1]. In genere si fa riferimento a due fonti di dati che non sempre risultano coerenti tra di loro data la differente modalità di rilevazione e le correzioni all’impianto metodologico avvenute nel tempo. Le analisi effettuate sulle due fonti di dati non sempre restituiscono risultati simili anche se, i trend storici e i cambiamenti sociali strutturali, vengono descritti in maniera univoca. I dati riportati di seguito si sono basati sui dati di Banca d’Italia integrandoli, laddove le informazioni non erano presenti, con i dati Istat.

Nuclei familiari per titolo di godimento dell’abitazione principale

Locazione non ERP – Stima delle famiglie in disagio economico[2]

(incidenza del canone annuo effettivamente pagato sul reddito familiare annuo superiore al 30%)

 

 

La risposta dell’Edilizia Residenziale Pubblica e del Social Housing

Avvio, sviluppo e fine della politica pubblica per la casa

Nei primi anni del dopoguerra l’Italia si trova in una situazione drammatica con il 40% del patrimonio abitativo delle città del centro nord distrutto o danneggiato, con molte famiglie in baracche, alloggi di fortuna e in coabitazione, mentre gli sforzi per la ripresa economica alimentano l’immigrazione dalle campagne e dal Sud.  Dopo i primi interventi pubblici e privati nel 1949 il Parlamento approva un provvedimento fondamentale, il Piano INA-Casa, noto anche come Piano Fanfani, proposto dallo statista che era allora Ministro del Lavoro (e non a caso la legge si chiamava “Provvedimenti per incrementare l’occupazione operaia, agevolando la costruzione di case per lavoratori”). Si avviava così un piano attivo fino al 1963; con la partecipazione dei migliori architetti e urbanisti si realizzarono insediamenti spesso esemplari, pensati allora come “quartieri organici autosufficienti”, oggi inglobati nelle attuali periferie in cui in genere sono riconoscibili come le aree meglio organizzate. Si formò anche un albo speciale di progettisti e circa un terzo degli ingegneri e architetti italiani fu coinvolto nell’attuazione del piano; si pubblicarono guide e manuali di taglio non burocratico, che proponevano esempi come modelli da interpretare e rielaborare, seguendo le esigenze e le condizioni dei diversi contesti locali.

Il piano era finanziato con la partecipazione dello Stato, dei datori di lavoro e dei lavoratori dipendenti, attraverso una trattenuta sul salario mensile. Il Comitato di attuazione era diretto da Guala (ex partigiano, manager che nel 1960 lasciò la vita pubblica per farsi frate trappista). Fino al 1962 oltre 350.000 famiglie ottennero un alloggio, con 20.000 cantieri diffusi in tutta Italia, nelle grandi città come nei piccoli centri, che offrivano un posto di lavoro ogni anno a 40.000 lavoratori edili. Nel 1963, dopo l’approvazione della Legge 167/1962 che istituisce i piani PEEP, si chiude l’esperienza INA-Casa e subentrano altri enti (la Gescal – Gestione Case per i Lavoratori –, i comuni) e altri strumenti.

In questo contesto nazionale Bologna è fra le città più dinamiche: aveva ottenuto un premio per la produzione edilizia, utilizzando ampiamente le risorse del Piano Fanfani e altri consistenti finanziamenti pubblici; si erano già realizzati diversi “villaggi autonomi” INA-Casa (Borgo Panigale, Due Madonne, S.Donnino, …). Nel 1963 Bologna è la prima città che presenta un grande Piano PEEP: sono previste 160.000 nuove stanze, su una popolazione di circa 450.000 abitanti. Questo obiettivo verrà poi ridimensionato, ma l’impegno per l’edilizia pubblica è confermato nel 1974 con il Piano PEEP per il Centro storico (caso pilota realizzato con finanziamenti nazionali ed europei), esemplare a livello internazionale, che prevede altri 15.000 vani di edilizia pubblica.

Alla fine degli anni ’70 la politica nazionale, con il Piano Decennale per l’edilizia del 1978 avvia un lungo periodo di interventi programmati. Si stabilisce la gestione unitaria del patrimonio di edilizia pubblica, affidata agli IACP; si regolano l’assegnazione dei finanziamenti e delle aree da edificare, l’assegnazione degli alloggi e il canone sociale; in sintesi, si costruisce un sistema che reggerà per oltre venti anni con effetti molto positivi per quanto riguarda la realizzazione dei piani PEEP e la continuità del lavoro garantita agli operatori dell’edilizia e dei settori collegati.

Si deve sottolineare però che il piano è chiaramente orientato a previlegiare la proprietà della casa: nelle aree PEEP l’intervento degli investitori pubblici (IACP e Comuni) è di molto inferiore a quello delle imprese (che di norma costruiscono per vendere) e a quello delle cooperative di abitazione, che sono quasi sempre a proprietà divisa. Benché le leggi offrano agevolazioni specifiche, le cooperative a proprietà indivisa – molto diffuse in altri paesi europei – in Italia sono molto poche. Nel frattempo si avvia anche la politica di dismissione della proprietà pubblica, con l’obiettivo di favorire l’acquisto da parte degli inquilini e – sulla carta – di ottenere così nuove risorse per realizzare nuovo patrimonio. La legge 513 del 1977 aveva già previsto sconti fino a più di metà del valore di mercato in caso di acquisto da parte degli assegnatari; la legge 560 del 1993 consolida questa prassi. Si arriva in molti casi ad una svendita, con ricavi modesti non sufficienti per nuovi interventi, e una conseguente riduzione del patrimonio pubblico pari al 20%. Più precisamente, il patrimonio di edilizia residenziale pubblica ammontava a un milione di alloggi nel 1991, è sceso a 900.000 unità nel 2001, fino ad arrivare oggi a meno di 800.000.  Rispetto al totale degli alloggi gestiti in locazione (circa 758 mila), nel 2013 risulta regolarmente assegnato l’86% degli alloggi su tutto il territorio nazionale (circa 652 mila alloggi), mentre la restante quota del 14% risulta non assegnata o perché sfitta o perché occupata abusivamente. In particolare, negli ultimi dieci anni risulta in aumento soprattutto la quota di immobili sfitti, che passa dal 3,6% al 6%, passando in termini assoluti da 28 mila nel 2004 a 45 mila alloggi nel 2013.

La dotazione di Edilizia Residenziale Pubblica in Italia – 2013

– Fonte: Nomisma su dati Federcasa –

Nel frattempo l’Italia è arrivata a condividere con la Grecia il record di famiglie proprietarie della casa in cui abitano, oltre il 70%; se si aggiungono altre forme di godimento, solo il 18% è in affitto. 

E’ un apparente successo per quanto riguarda la diffusione del benessere, ma si potrebbe tradurre in un binomio ricchezza privata/povertà pubblica valido anche in altri campi, ad esempio nei trasporti. E, soprattutto, è segno di una forte inerzia del settore, che impedisce politiche efficaci di rinnovamento in campo energetico o di sicurezza, che altri paesi europei stanno sviluppando proprio a partire dal patrimonio pubblico o dei grandi enti che gestiscono alloggi in locazione e proprietà indivise. Ma la svendita del patrimonio pubblico non solo l’ha ridotto, l’ha reso spesso quasi ingestibile, come hanno constatato gli IACP e gli enti che li hanno sostituiti, come l’ACER di Bologna; in tanti edifici il condominio vede insieme enti pubblici e proprietari privati, spesso non interessati a un intervento o non in grado di affrontare la spesa. L’ACER a sua volta non ha mezzi, avendo sempre più spesso inquilini morosi per indigenza vera o dichiarata, e quindi non può affrontare eventuali interventi richiesti dai condomini privati.

Infine, si è da tempo esaurito il “serbatoio” di famiglie che possono accedere a mutui; sono quindi scomparsi i PEEP e si ha la estremizzazione/scomparsa del mercato e delle politiche pubbliche. I nuovi poveri non accedono ad affitti di mercato. L’abolizione della tassa sulla prima casa è servita a poco, se non si riprende una politica di edilizia pubblica.

Dall’Edilizia Residenziale Pubblica (ERP) all’Edilizia Residenziale Sociale (ERS)

A fronte della vastità del problema, le risposte pubbliche sono state fino qui complessivamente inadeguate. Non può bastare neppure il ricorso a risorse private attraverso il sistema dei fondi immobiliari che sta rappresentando una risposta innovativa ma ancora marginale rispetto al crescente fabbisogno. Nel 2009 è stato istituito da CDPI Sgr il Fondo Investimenti per l’Abitare (FIA[3]) volto ad incrementare sul territorio italiano l’offerta di alloggi sociali per la locazione a canone calmierato e la vendita a prezzi convenzionati, a supporto e integrazione delle politiche di settore dello Stato e degli Enti locali. La dotazione di partenza del FIA ammonta a 2 miliardi e 28 milioni di euro, di cui 1 miliardo sottoscritto da Cassa depositi e prestiti, 140 milioni dal Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti e 888 milioni da parte di gruppi bancari e assicurativi e di casse di previdenza privata. Ad oggi dei 15.800 alloggi rientranti nei progetti acquisiti e deliberati sono stati finanziati solamente 5.990 alloggi, resi disponibili 3.350 unità di cui 2.593 assegnate.

Nonostante le difficoltà nell’avvio di iniziative di housing sociale, le esperienze esistenti sono comunque positive e restituiscono numerosi spunti sul tema parallelo del “gestore sociale”, figura strettamente connessa alla realizzazione di una nuova offerta abitativa sociale ed in parte estendibile anche all’Edilizia Residenziale Pubblica. In particolare, il gestore sociale è colui che deve selezionare gli inquilini per il progetto di housing sociale ma anche coinvolgere i residenti in azioni che sviluppino il senso di comunità e appartenenza. Tale figura dovrà svilupparsi nei prossimi anni in vista delle iniziative private e pubbliche di ERS ma potrebbe trovare un riscontro anche all’interno della Aziende Casa (ERP) al fine di migliorare l’offerta di welfare ampliandola dalla semplice assegnazione di un alloggio ad un processo di crescita delle persone e alla creazione di comunità integrate nel contesto cittadino[4].

Criticità nel contesto bolognese e suggestioni

L’incontro dello scorso anno ha riguardato il bisogno di casa dei più poveri.

Affrontarlo richiede una dedizione e un impegno straordinario, ma c’è il rischio che ci limitiamo a parlarne come di un’attività “speciale” da delegare a pochi eroi, dimenticando che tutti oggi dobbiamo affrontare il problema più ampio della casa per i cittadini che non possono – o non possono più – affidarsi al mercato.

Come abbiamo visto in passato ci si è illusi che il problema fosse praticamente risolto, favorendo al massimo l’accesso alla proprietà dell’abitazione; per fortuna non si è arrivati agli estremi della finanza americana (i mutui subprime), che è stata all’origine della crisi economica mondiale, ma per molto tempo non si è più fatta una politica nazionale per la casa.

Anche nel periodo di maggiore illusione si capiva però che il mercato non risolveva i problemi di certe categorie di cittadini. A Bologna, ad esempio, l’assessore Monaco e il rettore Roversi parlarono di accordi fra Università e Comune per costruire case da dare in proprietà alle famiglie di studenti, case usabili e rivendibili con formule analoghe al leasing o alla multiproprietà; un intervento diretto a famiglie relativamente benestanti, ma comunque utile a ridurre la speculazione sugli alloggi per fuori-sede.  Fra le iniziative di sostegno sociale negli stessi anni Mons. Ghirelli (attuale Vescovo di Imola) lanciò l’idea che le aziende attrezzassero case per alloggiare – almeno nel primo periodo di insediamento – i loro dipendenti immigrati da altre regioni o altri paesi. Questa proposta incontrava allora forti ostacoli normativi e fiscali, ma negli anni più recenti un’iniziativa simile è stata realizzata nel forlivese (Forlì, Santa Sofia, Tredozio, Modigliana) con proprietà comunale e contributi della Fondazione CariFo, di aziende e associazioni industriali e artigianali. A Forlì si sono avute anche le prime esperienze concrete di social housing.

Dalle analisi svolte e dalle esperienze ricordate possiamo a questo punto trarre alcune suggestioni riguardanti in generale tutte le città o, più specificamente, Bologna.

  1. Innanzitutto, occorre cercare di ricostituire un adeguato patrimonio di edilizia pubblica. Il governo nel 2014 ha finanziato il Piano di Recupero e Razionalizzazione degli immobili e degli alloggi di edilizia residenziale pubblica[5] attraverso il quale si stima di riqualificare tra il 12 mila e i 24 mila alloggi di ERP. Intervento rilevante ma esiguo rispetto ai bisogni abitativi emersi. In aggiunta, all’inizio del 2015 era stata annunciata un’importante iniziativa che prevedeva l’acquisto di 20 mila alloggi privati invenduti da mettere a disposizione ad affitto calmierato senza, tuttavia, alcun seguito. Un provvedimento simile era stato previsto nel 2008, e fu poi abbandonato con la caduta del governo. A livello locale questi interventi potrebbero anche essere oggetto di intervento da parte del Comune (ACER) con sostegno delle Fondazioni bancarie e di enti assicurativi, per offrire alloggi di ERP in affitto a canone sociale (o di ERS a canone calmierato), con garanzie e forme di integrazione per la morosità non colpevole. La Regione potrebbe anche incentivare l’uso del patrimonio pubblico in cattivo stato, seguendo l’esempio della Legge regionale del Piemonte n.6/2015 “Autorecupero degli alloggi carenti di manutenzione da parte degli assegnatari”, che dà la possibilità di sostituire/integrare l’affitto con lavori di manutenzione/rispristino degli alloggi. Questa possibilità sarebbe importante non solo o non tanto per gli aspetti economici, quanto per il fatto che affronta insieme due emergenze attuali, casa e lavoro; nelle forme giuridiche da definire con grande attenzione può anche offrire occasioni a disoccupati e migranti da integrare.
  2. Un secondo punto essenziale, a Bologna come altrove, riguarda un migliore uso del patrimonio ERP esistente. Abbiamo ricordato che è ridotto, in parte occupato abusivamente, in parte vuoto ma ancora da adeguare per mancanza di mezzi, in parte abitato da chi avrebbe necessità di spazi minori, o da chi non ha più i requisiti di accesso e/o di permanenza, e quindi dovrebbe uscirne per andare sul mercato o in alloggi a canone calmierato, in genere frammentato in tanti condomini ACER/privati, ingestibili per ogni intervento di adeguamento energetico o sismico. La gravità della situazione ha già indotto la Regione a definire nuove norme; il Comune sta agendo in sintonia e la nuova dirigenza ACER ha avviato diverse iniziative, dalla vendita di una serie di alloggi allo sgombero di complessi occupati abusivamente, oggetto di un importante programma finanziato di recupero. Queste decisioni possono portare finalmente ad una gestione più efficace del patrimonio, ma i risultati non possono certo essere immediati. In linea teorica, questi interventi sarebbero più facili se si avesse a disposizione uno stock di alloggi pronti, per accelerare i trasferimenti necessari ad una gestione più efficace. Tutto ciò, naturalmente, a patto che la strada intrapresa dall’ACER venga seguita con coerenza.

Note:

[1] “La nuova dimensione del disagio abitativo: statistiche e previsioni degli esperti di settore” di Alessandra Graziani (2004) e “Le politiche sociali per la casa in Italia” a cura del Centro di analisi delle politiche pubbliche dell’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia (2007)

[2] Per disagio abitativo economico acuto si intende una sostanziale impossibilità ad accedere al mercato abitativo anche a canone calmierato.

[3] http://www.cdpisgr.it/social-housing/FIA/caratteristiche-fondo/index.html

[4] Per approfondire il tema del gestore sociale si rimanda alla guida “Il gestore sociale” a cura di Fondazione Housing Sociale.

[5] Riferimento al Decreto del Ministero delle Infrastrutture del 12/10/2014, in attuazione dalla legge 80/2014 (cosiddetto «PIANO CASA»), attraverso il quale dovrebbe partire il Piano di Recupero e Razionalizzazione degli immobili e degli alloggi di edilizia residenziale pubblica che prevede 67,9 milioni di euro (2014-2017) destinati ad alloggi sfitti con interventi di manutenzione ed efficientamento e 400 milioni di euro (2014-2024) destinati al ripristino di alloggi di risulta e a manutenzioni straordinarie. Questa misura ha scontato forti ritardi al punto che il decreto attuativo porta la data del 12 ottobre 2015.

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Gianluigi Chiaro
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